Premetto che non sono di sinistra. Ho una posizione spirituale
e da questa posizione sviluppo la seguente analisi economica frutto della
continua riflessione sulle parole di Rosa Luxemburg.
Realizzo pienamente – oggi 23 11 2019 – che il CAPITALE è
una eggregora, è la forma-pensiero prodotta dall’AVIDITÀ umana. È una entità
senza testa né cuore ma solo pancia. Unico suo scopo è nutrirsi e poiché può
nutrirsi solo di altro capitale crea un giro vizioso che non produce nulla se
non alimento per se stesso e povertà per il resto della Manifestazione Vivente.
“Quanto più il capitale accumula… tanto più accumula”, scriveva profeticamente Rosa
Luxemburg.
Il CAPITALISMO è l’azione inconsapevole di coloro che spendono
la loro esistenza per nutrire questo mostro ingordo, che cresce sempre più e
necessita di sempre più cibo, come la pianta carnivora de “La piccola bottega
degli orrori”, ricordate? Proprio come una eggregora è una forma pensiero che
esiste poiché è stata generata, ma che a un certo punto diventa autonoma dai
suoi generatori e non persegue altro scopo se non la propria mera sopravvivenza
e sviluppo.
I CAPITALISTI sono coloro che perseguono un aumento continuo
di capitale (accumulazione) con lo scopo di reimmetterlo in attività che
producano altro capitale. Sono le marionette inconsapevoli della eggregora
CAPITALE – Audrey II (così si chiama la pianta carnivora de “La piccola bottega
degli orrori”, la quale mangiava solo il sangue del povero fiorista che la
aveva allevata e via via che cresceva lo costringeva a diventare un assassino
per procurarle sempre più sangue con cui nutrirsi). I capitalisti sono
ossessionati dal produrre sempre più capitale da investire per produrre altro
capitale, fino al punto che la loro vita diventa difficile dura e complicata
dai troppi maneggi che impediscono loro di “godersi” il frutto della loro
accumulazione. Perché fanno questo? Perché sono marionette e non hanno scelta.
Il capitale-eggregora-Audrey II ha il completo dominio su di loro e controllo
sulle loro vite, perché è un’entità autonoma senza sentimenti né obiettivi se
non ingoiare ingoiare ingoiare finché non resti più nulla. Ricordate che è
stato generato dall’avidità.
Rosa Luxemburg aveva visto e previsto tutto questo. E’ stata
ammazzata non certo per fini politici, bensì economici: il suo libro “L’accumulazione
del capitale” (ascoltabile sul canale youtube La Scuola delle Donne) apriva gli
occhi su quanto già allora stava succedendo e che oggi si sta completando. Rosa
è stata ammazzata dagli stessi che ancora oggi stanno ammazzando il pianeta e
rovinando intere nazioni, inclusa l’Italia. Come si esce dalle sgrinfie del
capitalismo? Obbligandoci a fare a meno del denaro. Imparando di nuovo a vivere
di scambi e doni. Perché è il denaro la causa di tutto questo. Il denaro al
quale abbiamo delegato di assicurarci felicità sicurezza stima. Il denaro non
può essere mangiato né coltivato né usato per ripararci dal freddo. E’ solo una
convenzione che mantiene in funzione la macchina capitalistica perché senza
denaro non possono essere acquistati i “beni” prodotti dal capitale il quale ha
bisogno che questi beni vengano smerciati perché si trasformino in altro denaro
con cui produrre altri beni e proseguire la catena finché il mondo collasserà
perché i mercati saranno saturi fino a scoppiare. Chissà che ora l’obbligo a rinunciare ai
contanti e a trasferire ogni passaggio di mano a un denaro bancario virtuale
inesistente non porti l’umanità a tornare agli scambi e a ridurre di misura il
dilagante ottuso consumismo che ci consuma.
Rosa, che hai visto compreso e previsto, grazie per averlo detto sapendo che avresti pagato con la morte
Ho individuato un fil rouge della memoria femminina, che unisce attraverso lo spaziotempo il sapere delle donne attraverso le radici del grande Albero delle Antenate: l’ho chiamato “fattore risonanza”.
Forse risvegliata dall’esercizio quotidiano del METODO La Scuola delle Donne® in Cerchio, lascio affiorare al livello di coscienza oggettiva la memoria dei collegamenti sottili tra donne di conoscenza che, pur incarnatesi in spazi e tempi diversi, si ritrovano in una dimensione comune contemporanea e presente. Il collegamento sotterraneo delle Antenate, nelle radici del Grande Albero della Conoscenza, è attivo anche se al di sopra della crosta, la mente razionale non lo coglie. Leggo in una pagina di “Ipazia vita e sogni di una scienziata del IV secolo” di Petta Colavito, una frase che trasporta davanti ai miei occhi Marie Curie. Cos’è che l’ha richiamata? La legge della risonanza: due diapason simili che si attivano a vicenda sebbene uno solo dei due venga toccato. Per questo, “Fattore risonanza” è il nome che do a questo strano fenomeno dove l’associazione di idee risveglia le Antenate le quali riaffiorano alla mia coscienza rispondendo a una parola o a un concetto espresso da un’altra di loro e che in quel momento io sto leggendo.
“Guarda, Shalim, questo è uno studio sull’atomismo di Democrito, risale ad almeno quattrocento anni fa, a dopo l’incendio appiccato da Giulio Cesare alla biblioteca madre, quella situata nel Mouseîon. Questo… questo, Shalim, è ciò che m’interessa di più! Se riusciamo a leggere in un mondo estremamente piccolo… allora potremo giungere fino alle stelle! È l’atomismo la chiave per accedere a tutti i misteri della vita e dell’universo! È con lo studio degli atomi che riusciremo a scoprire la vera natura delle cose! È attraverso lo studio degli atomi, dell’infinitamente piccolo, che potremo conoscere tutto, compreso l’infinitamente grande! Gli atomi che, come ci hai spiegato, vogliono dire “indivisibili”, muovendosi nel vuoto, incontrandosi e scontrandosi, aggregandosi e disgregandosi in una vibrazione o pulsazione eterna, generano mondi infiniti”.[1]
Mentre leggo ad alta voce queste parole – “Mondi Infiniti” – attribuite a Ipazia, Marie mi sorride e annuisce. Alla mia coscienza affiora il ricordo che anche lei aveva questa visione. Marie voleva scoprire e provare l’esistenza di mondi invisibili all’interno degli atomi, questo fu il movente della sua ricerca.
“Sapevo di essere venuta in quel corpo per uno scopo e con una missione: usare la scienza positivista per dimostrare l’esistenza dei mondi invisibili. Mentre proseguivo con la sperimentazione, ci si rese conto che la fisica classica non offriva alcuna spiegazione a una tale energia sprigionata dai tre elementi che definii radioattivi[2]. Bisognava cercare altrove, in altri reami dell’esistente e forse cercare nei mondi invisibili. L’emissione di radiazione spontanea era un enigma e non poteva essere spiegata come una ordinaria trasformazione chimica. Percepii che stavamo esplorando un campo fino a quel momento sconosciuto: quello dell’infinitamente piccolo, dell’energia pura. La struttura dell’atomo non era ancora stata scoperta a quell’epoca. L’atomo era solo un concetto filosofico risalente a cinquecento anni prima della nascita di Joshua[3], tuttavia garantiva nell’immaginario collettivo la stabilità della materia. Ora però, si scopriva che l’atomo poteva emettere energia e questo suggeriva che nell’universo ci fosse qualcosa di più piccolo dell’atomo stesso. L’atomo smetteva di essere una pallina – che, con miliardi di altre palline, formava la materia – e diventava un piccolo mondo da esplorare. Come in alto così in basso, come nel grande così nel piccolo, la legge alchemica della specularità frattale della vita venne da me non solo suggerita ma anche verificata misurata e battezzata. Nei processi di laboratorio, avevo visioni e chiavi di accesso ad altri mondi esterni e interni, risvegliavo facoltà latenti proprie dell’Essenza Umana Superiore, che ritorna Divina. Naturalmente consideravo un abominio che la Scienza, la Voce della Madre, fosse messa al servizio dell’industria e del denaro come un mero macchinario atto a riprodurre effetti certi da cause date”.[4]
Ipazia fu trucidata nel 415 d.C., prima di riuscire a completare la sua opera, come moltissime Antenate che non vissero abbastanza da portare a termine la loro missione. Ma il METODO mostra chiaramente come l’opera di una sia stata ereditata e proseguita da un’altra. Come in una collana di perle, le donne si passano l’una con l’altra la visione e la ricerca. Per quante ne sono morte giovani e non hanno potuto quindi ultimare la ricerca, altrettante ne sono nate che l’hanno ripresa e proseguita, come richiamate da una voce interiore che ha tenute e tiene collegate tutte le donne di conoscenza dall’inizio dei tempi.
Marie Curie operò tra la fisica e la chimica e poiché il radio che lei scoprì non apparteneva a nessuno dei due ambiti, ne creò uno nuovo a cavallo tra fisica e chimica: la radioattività. Le donne di conoscenza non dividono, non settorializzano, al contrario tendono a trovare il fil rouge che unisce le discipline.
Accanto a Marie si materializza un’altra donna e siede accanto a lei. È Rosa Luxemburg. Il “fattore risonanza”, che la richiama, è che anche lei si muoveva in un ambito che non era solo politico o economico o sociale ma era l’unione di tutti questi.
Rosa aveva accusato il suo stesso partito. La sua posizione non violenta la mise in contrasto non solo col capitalismo militarista occidentale ma anche con la stessa rivoluzione socialista-bolscevica russa e col suo leader Lenin, che ella accusò di aver trasformato in dittatura un movimento spontaneo popolare. Ed era uscita da ogni movimento ufficiale per percorrere sola il suo cammino di verità. Come per Ipazia, anche per Rosa si assiste a una vera e propria rimozione storica. Ancora oggi i “grandi pensatori” socialisti vengono discussi e studiati, mentre lei viene ignorata, tranne che dai gruppi femministi. Come per Ipazia anche per lei è stata operata una sorta di damnatio memoriae.
Da Rosa, il fattore risonanza mi
porta ad Hanna Arendt, filosofa tedesca che scrisse trent’anni dopo di lei. Di nuovo un ambito tipicamente femminile,
ovvero multidisciplinare, poiché l’energia femminile esiste prima della dualità
e suo scopo è unire:
“Il suo “Le origini del totalitarismo” non soddisfece né filosofi né storici né politici né sociologi perché mescolava le varie discipline. È un libro che non rientra nei canoni disciplinari specifici, né nelle distinzioni politiche stereotipe. La politica per lei non è l’insieme delle istituzioni, non è una comunità in cui si distingue tra chi governa e dunque comanda e chi obbedisce: questo è dominio, è ciò che tradisce la politica. Per Hanna l’attività politica per eccellenza è la rivoluzione quando riesce a non tradire se stessa scivolando nella violenza e creando istituzioni. La rivoluzione di una pluralità di esseri liberi che si riuniscono, destrutturano l’universo del dominio e danno vita insieme a uno spazio pubblico in cui scorre l’energia del potere ma non si trasforma in dominio”.[5]
La
multidisciplinarietà, che faceva studiare a Ipazia gli atomi per comprendere le
stelle, ha portato davanti ai miei occhi in questo attimo eterno, Marie Curie,
Rosa Luxemburg, Hanna Arendt e…. non è finita. Perché sta arrivando un’altra
antenata. È Marija Gimbutas.
“Il mio approccio allo studio divenne una nuova disciplina, composta dall’unione di archeologia, mitologia, linguistica, folklore, etnologia (e intuizione!!!). Questa nuova disciplina fu chiamata archeomitologia. Usai altre discipline per poter confermare in modo inconfutabile ciò di cui il mio cuore non dubitava affatto, per rendere credibili i miei ritrovamenti nel mondo degli uomini che esigono prove, prove e ancora prove e non si lasciano guidare dalla percezione. Fonte di ispirazione e via per il risveglio di memorie sono state per me le anziane lituane che vendevano erbe e verdure al mercato. Ho ritrovato negli scavi le stesse ceramiche decorate che fin da piccola osservavo sugli scaffali della mia casa a Vilnius, poiché la mia terra aveva segretamente conservato la tradizione della Dea e per questo avevo deciso di incarnarmi lì. Scoprii i simboli della Dea negli oggetti di uso quotidiano più comuni tra la mia gente, sulle decorazioni dei mobili e dell’abbigliamento. Ho sentito la voce della Dea nelle canzoni popolari; per avere informazioni sulle comunità matrifocali neolitiche, studiai il folklore lituano, i suoi canti, racconti e miti”.[6]
Testo Devana CC 2019
foto crediti da internet
puoi ascoltare qua la versione di questo articolo audioletta da Stea per me
[1] da “Ipazia vita e sogni di una
scienziata del IV secolo” di A.Petta e A.Colavito, La Lepre ed. 2009
Lo stanzone era fumoso e buio. Al tavolo centrale si affaccendavano diversi giovani infagottati in grembiuloni dal colore indefinibile per quanto erano sporchi e bruciacchiati. Storte, alambicchi e vasi di ogni dimensione erano poggiati su fornelletti a spirito o su piccoli bracieri pieni di tizzoni.
Lui, il più affannato di tutti nel correre da una parte
all’altra del tavolo, era lo scienziato. Aveva fatto tanto parlare di sé per
l’audacia dei suoi esperimenti, per le sue scoperte senza eguali in campo
medico e filosofico. Aveva percorso mezza Europa per imparare e insegnare i
suoi metodi. Era detestato dai suoi colleghi e amato da migliaia di discepoli
che affollavano le aule universitarie quando lui parlava.
Ma la sua vita era precaria e complicata. Sarebbe bastato un
nulla per farlo arrestare. Le autorità lo tenevano costantemente d’occhio in
attesa di un passo falso. Qualunque pretesto avrebbe consentito loro di
trascinarlo in prigione. Così lui viveva guardandosi alle spalle, senza mai
dormire veramente, senza mai assaporare il cibo, nemmeno quando gli cucinavo i
suoi piatti preferiti.
Io, Anna Schwester, ero la sua serva.
Tenevo in ordine il suo alloggio e il laboratorio alchemico,
accendevo il camino, preparavo i suoi pasti, lavavo la sua biancheria. Ma avevo
anche un’altra funzione di cui nessuno era al corrente: ero la depositaria dei
suoi segreti più nascosti. Le sue scoperte, i pensieri che non osava scrivere
né raccontare a nessuno perché troppo eretici, venivano trasferiti nella mia
memoria cellulare usando un sistema che lui aveva ideato. Non mi dava
spiegazioni perché diceva che tanto non avrei potuto comprendere. Non mi faceva
ripetere a memoria. Tutto veniva trasferito dentro di me senza che io facessi
nulla… attraverso un atto sessuale.
Sacra Unione, la chiamava lui.
Però non c’era “amore” tra noi, almeno non quello che
comunemente si intendeva dovesse esserci tra un uomo e una donna che
condividevano il giaciglio. Lui non amava nessuno. E io venivo, perlomeno in pubblico,
trattata con rudezza per non destare sospetti.
Nemmeno io lo “amavo”. Tuttavia sentivo un grande rispetto
per il suo coraggio e mi sentivo spinta a collaborare, a non negargli il mio
corpo.
Diceva che “un modo di congiungersi rituale durante un atto
sessuale permetteva il travaso della conoscenza dal maschio alla femmina,
inserendola direttamente nella memoria cellulare, nel siero acquoso di cui le
cellule sono piene”. Non so cosa voglia dire però ho memorizzato questa frase.
Mi aveva detto di aver trovato in
un antico libro di alchimia che si chiamava Picatrix la giustificazione
scientifica del nostro rituale. Le parole del libro dicevano: <il meglio, la cosa più saggia, quando si vogliono ottenere
risultati seri e veramente scientifici, è quello di prendere una giovane
vergine, appena formata, e di addestrarla seriamente nel silenzio di uno
studio, non con lo scopo di sbalordire il pubblico con la produzione di
fenomeni fisiologici e fisici, ma allo scopo di farne un aiuto prezioso per la
ricerca scientifica dei segreti della natura>.
Quando egli sentiva di dover “archiviare qualcosa nel mio
corpo” – così diceva – mi faceva capire di fermarmi per la notte. Faceva uno
speciale cenno con la testa che avevamo concordato. Io fingevo di uscire dalla
casa perché nessuno doveva sapere. Ma mi nascondevo nella legnaia e, dopo che
se n’erano andati gli apprendisti, rientravo.
Lui mi faceva scaldare ben bene davanti al fuoco e mi dava
da bere un liquido dolce che mi piaceva e mi faceva sentire piena di gioia. Lo
beveva lui pure. E poi mi faceva sdraiare sul suo giaciglio e cominciava il
nostro rito.
Non mi disturbava, anzi mi piaceva. Era una sensazione di
vertigine, un calore che mi svuotava la testa e riempiva il mio corpo di
piacere. Non sapevo cosa mi succedesse, però, dopo, sentivo di essere diversa,
più bella, più importante. Aveva grande dolcezza e rispetto per me in quei
momenti e mi chiamava “Sacro Vaso”. Mi faceva sentire di avere uno scopo nella
mia esistenza.
Anche quella sera avevo intercettato il cenno della sua
testa. Mi dovevo fermare. Era già successo molte volte da quando badavo alla
sua casa e ultimamente sempre più spesso, come se si sentisse minacciato e
avesse premura di “scaricare” in me tutto il suo sapere.
Gli apprendisti stavano ultimando i loro esperimenti quando
la porta fu fracassata e nel laboratorio irruppero tre armigeri con barbe nere
e occhi cattivi.
– Sei in arresto Von Hohenheim, finalmente ti mettiamo le
mani addosso!
Lui non tentò di difendersi e nemmeno di scappare come aveva
fatto altre volte. Era come se li stesse aspettando. I suoi apprendisti si
dileguarono velocemente per non avere guai. Nessuno badò a loro: erano pesci
piccoli. Io stavo per parlare ma mi fulminò con lo sguardo imponendomi di
tacere.
– Prima che lor signori mi accompagnino al mio nuovo
alloggio devo dare alla mia serva disposizioni riguardo alla casa. Vogliano
aspettarmi fuori.
– Fuori? Ci credi babbei Paracelso? Parla pure alla tua
puttana che noi tanto non ci muoviamo da qui.
Lui, Philipp Theofrast Aureolus Baumbast Von Hohenheim detto
Paracelso, ingoiò la rabbia e mi si avvicinò per sussurrarmi poche veloci
parole che gli armigeri non potessero sentire.
– Anna, amica mia, se scoprono quello che abbiamo fatto la
tua vita non potrà essere salvata. Il nostro segreto deve rimanere nascosto. Ho
fatto in modo che tu sia il mio libro vivente. Nelle tue cellule è depositata
la memoria delle mie scoperte. Un giorno, tra centinaia di anni, saprai come
fare per recuperare le informazioni. Addio. L’Universo ti ricompenserà.
Si girò e senza guardarmi si consegnò alle guardie che
strattonandolo come un comune delinquente e ridendo sguaiatamente lo spinsero
fuori casa, nelle gelide e buie strade di Salisburgo.
Rimasi per un pezzo accanto al camino che si andava spegnendo,
senza la forza di muovermi o di reagire.
A notte fonda trovai il coraggio di uscire furtivamente dal
laboratorio. Avevo dedicato a quell’uomo gli ultimi anni della mia vita al punto
da dimenticare me stessa.
Cos’avrei fatto ora?
Come avrei impiegato il mio tempo?
E dove avrei potuto a mia volta scaricare tutto il sapere
che egli aveva travasato in me… perché non fosse perduto con la mia morte? “Tra
centinaia d’anni saprai come fare per recuperare le informazioni…” – aveva
detto.
Cosa poteva mai significare?
Forse che attraverso le sue pratiche aveva reso il mio corpo
immortale? La mia vita mi sembrava già tragica in quei primi attimi che
seguirono al suo arresto… Come potevo immaginare un’eternità in quello stato?
Decine di domande si rincorrevano nella mia mente fino a
farmi oscillare. Ero indebolita dallo spavento e dalla fame e sentivo la
necessità di bere al più presto dell’acqua pura. C’era una piccola fonte
limpida appena fuori dalle mura della città. La gente andava ad attingere
l’acqua per la tavola e qualcuno raccontava di aver visto una fanciulla bionda
vestita d’azzurro aggirarsi talvolta nei paraggi.
Certo non c’ero mai andata di notte, ma nello sconvolgimento
di quelle ultime ore non trovai un luogo migliore dove rifugiarmi.
Irrazionalmente speravo che la bionda fanciulla mi avrebbe trovata, aiutata!
Mi avvolsi strettamente una coperta intorno al corpo e mi
incamminai al buio. L’aria era fredda ma mi ritemprava. Sentivo i capelli
appesantirsi per l’umidità.
Evitai i vicoli che sapevo frequentati da gente di malaffare
e dopo circa mezz’ora mi trovai alla porta della città. La guardia era già
ubriaca e mezzo addormentata e non ebbi difficoltà a socchiudere l’uscio di
legno piccolo e a sgattaiolare fuori, verso la campagna.
Non lontano finalmente, presso una radura, sentii il noto e
confortante scrosciare dell’acqua libera. Il riflesso della luna piena si
rispecchiava in mille scintille luminose che erano le goccioline degli spruzzi.
Immersi le mani nella conchetta di legno che il falegname
della città aveva intagliato e posto sotto alla piccola cascata per raccogliere
più facilmente l’acqua nelle brocche. Mi sciacquai il viso e bevvi con avidità,
come se bevendo potessi trovare conforto.
E forse fu proprio così perché improvvisamente tutto fu
chiaro e seppi cosa fare… cosa diventare… una “donna del bosco”, una waldfrau,
nomade e libera. Tanto non avrei in ogni caso mai più potuto riprendere la vita
di prima, prima che quell’uomo mi cambiasse così profondamente.
Avrei vissuto nei boschi aiutando la gente con le ricette e
le pratiche che tante volte gli avevo sentito ripetere ai suoi apprendisti.
Ormai conoscevo l’uso delle erbe e come massaggiare e trasferire calore alle
parti del corpo malate, come intonare melodie con la voce e come pregare il fuoco
e il vento per ottenere guarigioni. Sapevo anche come usare piccoli bisturi per
incidere la carne e spurgare ascessi e bubboni.
Paracelso mai aveva sottovalutato il potere degli elementi e
dei rimedi della natura.
Io avrei vagato, cercando di rendere utile la mia vita e
onorando la sua memoria, fino a che non mi fosse stato dato un modo per
scaricare il mio sapere in qualche luogo dove fosse al sicuro dai suoi nemici…
che probabilmente ora erano anche i miei.
Tornai verso la mia modesta casetta per mettere insieme le
poche cose che avrei portato con me, qualche camicia di ricambio e dei
fazzoletti forse. Non sapevo, ero come guidata da una forza interiore che mi
diceva cosa fare senza che dovessi io stessa decidere. Misi insieme un piccolo
involto nel quale posi anche qualche provvista, pane e formaggio e della carne
secca. Poi ripassai dal laboratorio sperando che non vi fossero state messe
delle guardie. Volevo portare con me un bisturi e l’unguento di erbe amare che
Paracelso usava come lenimento. Conoscevo la ricetta e quando fosse finito
avrei potuto prepararlo io stessa. Ma intanto utilizzare il suo sarebbe stato
d’aiuto a rimanere collegata con lui, a rimanere la sua serva e, d’ora in poi,
la serva di tutti. Di tutti coloro che avevano bisogno di cure e che il fato
avrebbe posto sul mio cammino.
Così avrei cercato di consacrare la mia vita a riparare la
grande ingiustizia a cui avevo assistito… il suo arresto.
Tutto andò liscio.
Nel giro di neanche un’ora mi ritrovai nuovamente alla porta
di Salisburgo. Prima di varcarla per sempre mi voltai, convinta di sentire
commozione o dolore nel lasciare il luogo nel quale ero nata e da sempre
vissuta. Invece nulla. L’arresto di Paracelso aveva arrestato anche una parte
di me. Io non appartenevo più a me stessa. Forse, se in quel momento avessi
potuto vedere il mio volto, non l’avrei riconosciuto. Nel giro di poche ore la
mia vita era stata totalmente sconvolta e la mia mente riprogrammata.
Il mio cuore era sereno, mi sentivo forte e lucida. Ero
molto determinata e con passo deciso uscii per sempre dalla città e mi diressi
alla fonte per cercare un cantuccio dove passare al sicuro la notte.
Nella piccola grotta accanto alla conchetta di legno trovai
riparo. Accesi un fuocherello dietro i massi, cosicché non potesse essere visto
dalle guardie o dalla gentaglia, e tirai fuori il mio pane e formaggio. Mangiai
e poi mi allungai sull’erba avvolta nella mia coperta.
Quasi senza accorgermene mi addormentai e sognai.
Sognai lui, Paracelso, bello giovane e sorridente. Senza
parlare mi si avvicinava e mi depositava un leggero bacio sulla fronte. Mi posò
tra le mani un libro pesante e voluminoso e una ciotola d’acqua e scomparve.
Dietro di lui una bellissima fanciulla bionda, vestita di una lunga tunica
color del cielo, mi sorrideva e dondolava gentilmente il capo in avanti come a
dire
– Sì… sì… Sorella. Hai compreso cosa ti aspetta. Lungo sarà
il cammino ma già è tracciato davanti a te. Non vacillare mai –
Mi svegliai mentre sentivo quelle parole nella mia testa e
vidi l’alba più bella della mia vita.
Ancora assonnata mi guardai intorno. L’odore del bosco mi
riempì le narici. Sentii il dolce canto dell’acqua che danzava nella piccola
sorgente.
Inaspettatamente, gli eventi della serata mi tornarono alla
mente con nitida precisione. Mi alzai e istintivamente, come prima cosa,
sorseggiai un po’ di quell’acqua cristallina e iridescente. Il suo sapore era
quasi dolce, sembrava il succo di un frutto purissimo. Chiusi gli occhi e la
assaporai per un attimo, intensamente.
Sentivo di essere trasportata da una volontà che non era
mia. Come fossi su un carro e facessi parte di una carovana, diretta verso non
so quale destinazione dopo aver compiuto un lunghissimo viaggio. Mentre i miei
piedi si muovevano e conducevano il mio corpo attraverso la foresta, silenziosa
presenza tra gli alberi maestosi che cominciavano a brillare dei mille riflessi
del sole al mattino, io ricordavo Paracelso…
“Non appartenga a nessuno, chi può essere signore di se
stesso”, lo avevo sentito ripetere tante volte, insegnandolo senza sosta ai suoi
allievi. Egli cercava di inculcare nei loro spiriti alcune leggi fondamentali
dell’esistenza che apparentemente non avevano nulla a che vedere con le storte
e gli alambicchi ma che, diceva, ne rendevano ottimale l’utilizzo.
<Senza libertà, senza curiosità della vita, senza
coraggio, non avrete mai i componenti di base per gli esperimenti. Tutto
rimarrà solo un esercizio di ripetizione e resterete per tutta la vita allievi.
Dovete elevarvi, diventare maestri voi stessi e maestri di voi stessi, cercare
dentro di voi la memoria… la memoria di ciò che da sempre giace depositato
nelle vostre cellule. Non scopriamo mai nulla di nuovo. Ci limitiamo a
ricordare… ricordare… ricordare il tempo in cui fummo Dei>.
Vagavo nella foresta calpestando le foglie che crocchiavano
sotto le mie suole. I rossi e i gialli dorati della livrea autunnale in arrivo si
mescolavano ai verdi dell’estate che finiva. Quella era da sempre la mia
stagione preferita. Ne amavo i colori sopra ogni cosa e ora che potevo
gustarli, senza null’altro da fare, volevo riempirmene i sensi.
Solo tre anni prima, lottando contro gli intrighi dei
colleghi che lo volevano bloccare in tutti i modi, Paracelso era riuscito a far
pubblicare un suo libretto che aveva intitolato “Il labirinto dei medici”. Come
se non ne avesse già abbastanza, questo gli aveva provocato ulteriori feroci
inimicizie non solo tra “gli scienziati” dell’epoca ma anche tra i sudditi di
Roma che mal sopportavano le sue tirate sulla libertà dai “Sacri Libri” e altre
allusioni alla loro inutilità e all’impossibilità di apprendere dagli uomini,
impossibilità che metteva in dubbio, sebbene in modo indiretto e dissimulato,
l’autorità della Chiesa stessa.
Ne ricordavo interi brani, che avevo da lui udito leggere ad
alta voce nel laboratorio, mentre i discepoli praticoni e superficiali attendevano
con trepidazione i risultati di qualche esperimento.
“I libri trasmessi dagli antichi a voi ed a me non mi sono
apparsi sufficienti, poiché essi, anziché essere perfetti, sono degli scritti
incerti che servono più a traviare che ad indicare la via retta e semplice; e
per tale ragione mi sono deciso ad abbandonarli…
“Ho riflettuto a lungo, dove possa trovarsi il maestro che
insegni veramente… ho trovato che l’arte della medicina può essere appresa
benissimo anche da soli… l’uomo non deve cercare la propria salute nell’uomo,
quale unico maestro, bensì abbandonare gli uomini e cercare i libri maestri,
onde diventare perfetto per loro virtù…”.
Mentre camminavo nella foresta senza meta, accarezzando le
foglie, trasognata e dimentica della fame e degli scopi che mi ero prefissata,
ricordai in particolare un brano che, all’udirlo la prima volta, mi fece tremare pensando che stavo servendo
uno di quelli che venivano imprigionati con un’accusa terribile: quella di
eresia. Quella sera leggeva Paracelso dal suo libretto:
“Seppure Dio abbia dato a san Pietro e ad altri santi il
santo potere di scacciare il diavolo e resuscitare i morti, ecc., questo potere
non l’hanno potuto conferire nemmeno loro, e cioè l’insegnamento e la dottrina
di Dio. Dobbiamo accoglierli dunque dalle mani di Dio e presso Dio. Altrettanto
vale per la medicina. Ciò che può dare l’uomo non è che un cattivo
insegnamento: la perfezione deve essere presa dalla luce della natura, alla
stessa guisa come gli apostoli la presero da Dio. Ricordatevi bene di un
esempio: gli apostoli non hanno predicato Cristo per propria virtù, ma per
mezzo di Colui che parlava in loro con lingua infocata, e che fu il loro
maestro…”.
Quante volte egli ripeteva ai suoi allievi la sua verità
fondamentale: sperimentare personalmente osservando la natura. Quante volte li
aveva esortati a non ripetere i risultati altrui ma ad ottenerne di propri.
Mentre camminavo in quella natura che egli tanto amava e che fu sempre la sua
vera Maestra comprendevo a poco a poco, dolcemente ad ogni passo, la grandezza
del suo insegnamento e il vuoto che la mancanza delle sue parole avrebbe
lasciato nella mia anima.
“Che il medico impari dalla luce della natura con l’aiuto
della filosofia e della astronomia, e non dall’uomo stesso, in cui la luce
della natura non esiste per nulla…
“Intendete con ciò, che tanto per voi quanto per me non
servirà più ricorrere ai libri cartacei. Chi potrà giungere, infatti, alla fine
o trovare la verità, ascoltando le vuote ciance di ogni vano predicatore?”.
E poi ricordava ai suoi lettori, quindi ai suoi allievi e a
se stesso: “Dio ha detto che il saggio non dovrà disprezzare la medicina,
poiché Iddio agisce ed opera particolarmente in questa scienza”.
Compresi che era probabilmente a causa di quello che lo
avevano arrestato e che dovevo stare ancora più all’erta di quanto non avessi
calcolato la sera prima.
Lui aveva passato ore di incertezza ma senza disperazione.
Si aspettava da tempo di essere imprigionato e rinchiuso in una gelida buia
cella. Lo aveva previsto in ogni dettaglio. Alla fine aveva semplicemente
smesso di scappare dal suo inevitabile destino, dal destino comune a tutti gli
innovatori.
Da che mondo è mondo coloro che insegnano a guardare la luna
oltre il dito erano stati osteggiati, disprezzati, temuti e suppliziati in vari
modi. Non era il primo e purtroppo non sarebbe stato l’ultimo, almeno sul piano
di esistenza nel quale aveva scelto di servire per quella incarnazione.
Per un attimo provò ad esplorare con le mani le pareti della
cella cercando di comprenderne la forma, ma poi si abbandonò, vinto
dall’inutilità dell’operazione: una forma o l’altra cosa cambiava? Era appunto
forma… apparenza.
All’improvviso udì rumore di passi che si avvicinavano,
passi sgraziati, pesanti e irregolari
– uno zoppo – pensò –
o un ubriaco.
Quei passi non gli lasciavano presagire nulla di positivo
per la sua attuale situazione. Il catenaccio cigolò pesantemente e la porta si
aprì lasciando entrare poca luce verdastra e puzzolente. Dovevano essere
parecchio in profondità. Il lercio individuo che gli stava davanti non era
venuto per portargli qualcosa, ma per portargliela via.
– Dammi quello che hai addosso – biascicò rabbiosamente
esalando un fetido odore di alcool – e non cercare di fare il furbo o ti
accoppo ora. Nessuno ha interesse che esci di qui, cane!
Il guardiano credeva probabilmente che lui avesse con se denaro
o forse un anello o una catena d’oro. Non sapeva che non gli era stato lasciato
il tempo di prendere nulla e che, in ogni caso, non possedeva nulla di valore.
Paracelso cominciò a spogliarsi mentre l’altro lo guardava
incerto.
– che fai?
– ti dò quello che ho addosso…
– ti ammazzo – gracchiò e gli si buttò addosso a corpo
morto.
Paracelso vacillò, debole e affamato com’era, e si schiantò
contro il muro con tutto il peso del suo aguzzino sopra di lui. Batté
violentemente la testa. Perse i sensi.
Il guardiano si rimise in piedi a fatica e, sputando, finì
di spogliarlo. Si portò via i suoi indumenti, lasciandolo completamente nudo,
svenuto.
…
Io nel bosco camminavo sentendomi all’improvviso il cuore
stretto da un’angoscia irrefrenabile. Cominciai ad emettere dei brevi guaiti,
come una lupa addolorata, per dare uno sfogo a quell’oppressione; poi, ad un
tratto, la testa mi esplose in mille frantumi.
…
Dopo un certo tempo Paracelso rinvenne e si ritrovò
accasciato sul pavimento, con la testa incrostata di sostanza vischiosa: il suo
stesso sangue. Il dolore era fortissimo ma, attraverso di esso, una esile via
d’uscita andava formandosi. Nel buio totale mi vedeva proiettata in un cerchio
luminoso al di fuori della sua scatola cranica. Vedeva me che camminavo nella
foresta gemendo e premendomi la testa.
D’un lampo comprese: il colpo al cranio, concepito
esclusivamente per nuocergli, gli aveva invece portato un gran beneficio.
Ancora non riusciva a comprendere come fosse stato
possibile, ma sembrava che si fosse creata un’apertura attraverso la quale mi
poteva vedere. E, meglio ancora, le sue immagini mentali potevano entrare nella
mia testa. Come due vasi comunicanti.
Aveva sognato, una volta, di certe pratiche che i monaci,
nelle alte montagne del lontanissimo Oriente, effettuavano con dei cunei sulle
ossa craniche, creando passaggi per aprire la vista interiore. Al momento,
però, era troppo stanco e intontito per capire. Ci sarebbe stato tempo più
tardi… forse. Si accorse di essere nudo e cominciò a battere i denti,
rannicchiandosi sempre più per proteggersi dal freddo con le sue stesse membra,
come poteva.
La cosa che più gli importava era comunicare con me e così,
istintivamente, sebbene si trovasse già completamente al buio, chiuse gli occhi
per aumentare la concentrazione, il raccoglimento.
…
Intanto io avevo lacerato il bordo della veste e ne avevo
ricavata una fascia che mi ero stretta intorno alla testa per trovare sollievo
a quei dolori lancinanti.
Chissà come mi venivano in mente le parole di Paracelso, un
sera in cui era particolarmente ispirato nella lettura del suo pericoloso
libretto:
“Mi si accusa di non entrare nella medicina per la retta
porta… In verità quella è la retta porta, che consiste nella luce della
natura… Esamina tutti i libri che furono composti sulla medicina: ciò che
concorda con la luce della natura rimane ed ha forza; ma ciò che non concorda
con essa è un labirinto che non ha né ingresso né uscita… Coloro che si
smarriscono (nel labirinto) vanno e cercano senza fine e cercano dove non vi è
nulla, trovano dove non vi è nulla e trovano ciò che non è nulla… L’arte
della medicina procede da uno solo, e cioè da Dio; ed è da lui che deve
sgorgare il fondamento”.
E io mi trovavo proprio completamente immersa in quella
natura che veniva indicata come il libro di Dio. Sentivo nella testa il respiro
di Paracelso, la sua voce, i suoi pensieri e soprattutto la sua sofferenza. Ma
sentivo anche con estrema chiarezza che tutto quel dolore non era e non sarebbe
stato vano. Il Disegno non aveva mai tessuto nessuna trama inutile. Forse il
corpo doveva passare attraverso il dolore per giungere, sublimandolo, ad una
più alta percezione dell’esistente. Come una prova iniziatica.
Dalla sua cella, Paracelso trasferiva in me attraverso il
foro nel suo cranio tutto ciò che poteva. Tutta la sua scienza, le sue
intuizioni, i suoi ricordi. Velocemente, sempre di più, mi saturavo di un
sapere che non era mio.
Mi sentii completamente collegata a quell’uomo e sempre più
al suo servizio, al servizio di un Piano che non comprendevo ma che non
riuscivo ad abbandonare……..
…… ero sempre stata una serva…. e non avrei mai più potuto
essere altro.
All’alba Paracelso morì.
Testo CC Devana 2017 disegno di Nahima tratto dal libro edito da Anguana