Vivere la quotidianità in modo sacro
Nella nostra società “occidentale e civilizzata” il concetto di sciamanismo rimanda a rituali di popolazioni native (o quello che ne resta) e a culture distanti dalla nostra nella quale le religioni sono assenti e le popolazioni sono “pagane e selvagge”. Viaggiando da 15 anni in tutto il pianeta, incontrando uomini e donne di conoscenza nativa e bagnandomi nelle acque dei siti sacri per risvegliare le mie memorie cellulari, mi sono resa conto che lo sciamanismo è uno stile di vita (e non un mestiere o una serie di tecniche che si possano imparare a un corso con diploma finale). Essere sciamane significa vivere in modo sacro, trasformando la vita ordinaria in una cerimonia grazie alla consapevolezza e all’attenzione.
Essere sciamane significa camminare nella natura sapendo che è nostra Madre, respirando con lei, rispettandola e ripulendola a volte dall’immondizia abbandonata. Cucinare e mangiare essendo coscienti che il cibo è un suo dono e scegliendo una alimentazione non violenta. Ringraziare e fare piccole offerte (biodegradabili!) agli alberi, alle pietre, all’acqua. Collegarsi con gli elementi – pietre, alberi, acqua, vulcani – che sono nostri fratelli e sorelle e possono trasmetterci le antiche memorie della nostra origine, del nostro lignaggio.
Essere sciamane significa trasformare ogni passeggiata nel bosco in un rito sacro dove assorbiamo la medicina (cioè la caratteristica) dei nostri fratelli e sorelle alberi acqua pietre fiori e della Madre terra. La STABILITA’ dell’albero, la FLESSIBILITA’ dell’acqua, la MEMORIA della pietra, la SEDUTTIVITA’ del fiore e il NUTRIMENTO della terra. Camminare nel bosco con questa consapevolezza può essere un momento magico potente che risveglia in noi memoria e conoscenza.
E’ così che si risveglia la nostra natura divina e le nostre memorie sciamaniche. Rendendo sacro e consapevole ogni nostro gesto quotidiano, compiendo ogni azione con gioia e gratitudine, rispettando ogni forma di vita, cantando e suonando la danza della vita di cui siamo cellule. Esercitandoci a vivere la vita ordinaria in modo sacro e consapevole la nostra vibrazione cambia e varchiamo il portale. Conoscere la ruota di medicina non è sufficiente, bisogna saperla applicare ai gesti della vita quotidiana, riconoscendo gli animali totem e le loro medicine anche nel giardino di casa, per risvegliare le memorie addormentate nelle cellule di ognuno di noi.
Questa è la Via della SCIAMANA MODERNA che io cammino da più di un ventennio.
Nelle culture native il concetto di “Dio” è assente. Piuttosto esiste ben chiaro il concetto di ENERGIA e di RECIPROCITA’ e MUTUO SCAMBIO tra uomo e natura. E’ la Natura ad essere adorata nel suo aspetto maschile di Padre Cielo e femminile di Madre Terra. Le donne nelle culture native conoscono le erbe e i rimedi per curare le loro famiglie, fanno offerte per ogni momento della vita: nascite, semine, raccolti e morti, richieste e ringraziamenti al Tutto Cosmico.
Nella cultura nativa cilena del popolo Mapuche, ancora vivente e con una sua identità riconosciuta dal governo, la preghiera viene definita “negoziazione”. Significa che ogni volta che si chiede agli Spiriti bisogna offrire qualcosa in cambio specificandolo molto chiaramente e mantenendo la parola. Se la parola non viene mantenuta e la promessa infranta poiché non si è pagato il tributo, la comunità si ammala e si ammala la Natura. Questa attitudine fa sì che ogni uomo donna e bambino sia una persona d’onore.
I nonni e le nonne nella cultura mapuche hanno il compito di ascoltare i sogni dei nipoti e decifrarli. Grazie a questo, comprendono le loro inclinazioni e li avviano ad una attività e a una vita giuste per loro. La saggezza degli anziani, lucidi e vitali fino alla fine, è quella che garantisce la giusta interpretazione dei segni, la buona relazione col Piano Divino e la corretta individuazione della propria missione nella vita.
Ancestralmente la donna era ed è la custode del fuoco in casa e nella comunità. E’ la Dea del territorio. E’ colei che resta a protezione degli spazi della tribù e degli antenati. La donna è in grado di produrre una organizzazione ottimale di spazi e risorse perché da sempre ha depositata nelle cellule la memoria dell’arte di arrangiarsi con ciò che c’è e di sfamare tutti i suoi figli.
Nell’Antica Europa, la nostra terra, le nostre radici, fino alle prime invasioni di popoli guerrieri patriarcali, visse e prosperò per migliaia di anni una società matrifocale. Significa che le comunità erano guidate dalle donne anziane e si venerava la Dea Madre. Queste società, secondo gli studi e le testimonianze dell’archeologa Marija Gimbutas (vedi bibliografia), erano pacifiche, agricole, spirituali. La guida delle donne, delle madri, delle anziane garantiva che i beni, tutti in comune, venissero utilizzati in modo ottimale per le necessità di ogni membro della comunità. Non esisteva il concetto di proprietà privata o di accumulazione.
Nella nostra società, al contrario, si stimola il desiderio di possesso, e questo BLOCCA LA CREATIVITA’, la coscienza cioè di poter creare ciò che ci serve nel momento in cui ci serve, senza bisogno di accumulare. E si stimola l’identificazione con le “STAR”, stereotipi creati e nutriti per abbattere la peculiarità di ognuna di noi, l’unicità di ogni essere vivente.
Nell’Antica Europa, ma anche nel resto del mondo in quell’epoca, la donna era venerata come datrice di vita sebbene l’anziana della comunità, pur rispettata e interpellata come una leader, non godesse di privilegi materiali né di ricchezze particolari. Il suo era un “potere” di tipo spirituale e l’obbedienza non era ottenuta con l’imposizione bensì grazie al semplice riconoscimento del suo buon senso.
Non sono state trovati, nelle sepolture risalenti all’epoca di cui sto parlando, oggetti che potessero far pensare a una “attività sciamanica” come quella che intendiamo oggi, cioè di guarigione-sacerdozio in capo a una persona particolare. Le comunità delle madri vivevano nell’Unità e pertanto non avevano un concetto di malattia come qualcosa da guarire (come lo intendiamo noi oggi dando quindi alla figura dello sciamano una connotazione di “medico” nativo). Vivendo nell’Unità ogni fase del corpo era intesa come trasmutazione, non come malattia. Fino a che il corpo veniva abbandonato per tornare ciclicamente nel grembo della Grande Madre per poi essere rigenerato in un nuovo corpo partorito dalle donne del clan. Quindi la parola sciamana non va intesa come una guaritrice o una sacerdotessa che fa da tramite tra la sua gente e la divinità. Il rapporto era diretto. Ogni donna era sciamana (shaman significa “ponte” quindi essere che si muove tra le dimensioni) nella sua casa, conosceva i rimedi per sostenere le fasi del corpo nella sua trasmutazione e celebrava le cerimonie domestiche che facevano di lei una sacerdotessa. Ogni donna del clan era sciamana e sacerdotessa. Non esistevano ruoli né gerarchie. Ed è questo il significato che do alla parola sciamana. Parlando di sciamana moderna intendo che ogni donna di oggi si riappropri di questo ruolo sacro di sacerdotessa nella sua casa che diventa il suo tempio.
Tantomeno esisteva il concetto di guerra o razzia o invasione. Tant’è che quando dall’Asia giunsero i guerrieri a cavallo e armati, le pacifiche popolazioni locali non furono in grado di difendersi. Tutto questo la storia ufficiale non lo insegna o lo bolla come “preistoria”.
La cosa fondamentale in queste società matrifocali, cioè incentrate sulla donna, la madre, la Dea, era che non esisteva divisione tra le case e i templi. Le attività quotidiane venivano svolte con il senso del sacro e in modo rituale. Ogni casa era un tempio dove la donna celebrava i suoi riti ogni volta che cucinava o tesseva. In un angolo di ogni abitazione c’era un forno dove si cuoceva il pane. Quel forno, quel pane, erano simboli di ventre gravido con la sua creatura al suo interno. Impastare e cuocere il pane era rito e preghiera.
Come pure offrire un po’ di farina, o di latte, o di birra, alla Madre, alla Terra, nei momenti riconosciuti per le cerimonie.
Ogni donna lo sapeva.
Ogni donna lo faceva.
Tra le abitazioni sorgevano poi dei templi propriamente detti, con un altare di argilla coperto da assi di legno. In questi locali, l’archeologa Gimbutas ha trovato una quantità impressionante di statuette dedicate alla Dea, con grandi seni e ventri e fianchi. Da questo ha dedotto che le società del neolitico adoravano la Madre, poiché non sono stati trovati che pochissimi reperti di statuette maschili rispetto alla stragrande maggioranza di statuette femminili.
Le azioni quotidiane come tessere e creare oggetti di ceramica, tessuti e vasellame da utilizzare poi per la vita quotidiana, erano compiute in modo sacro e rituale, nei templi, dalle donne della comunità. Le donne giovani e ancora fertili si occupavano della ceramica, i cui vasi anfore e ciotole rappresentavano il ventre gravido, mentre le anziane ormai in menopausa erano le addette alla tessitura. Poiché il tessuto, come leggerete nel capitolo LA DEA E IL TELAIO, era non solo una pezza da indossare, ma il simbolo della creazione cosmica e delle buone relazioni, intessute dalle anziane ormai stabilizzate nel loro ritmo lunare e ormonale.
Quindi la cottura del pane, la ceramica e la tessitura erano attività integrate in ambito sacro. Nulla veniva svolto in modo ordinario, distratto, superficiale. Ogni gesto era consacrato ad un più ampio Disegno e al benessere della comunità. Questo è il segreto.
Questa la via che la sciamana moderna deve percorrere. Non solamente aspettare di essere in una chiesa o tempio o corso di yoga o meditazione per collegarsi al divino, ma portare il divino e il senso del sacro nei propri gesti quotidiani, renderli magici con la propria consapevolezza. Tutti. Anche i più umili come lavarsi il viso al mattino, stendere il bucato al sole o cucinare. Dipende da noi risacralizzare la nostra quotidianità e trasformarla in un’unica ininterrotta preghiera.
Solamente in questo modo sarà possibile cambiare la qualità della nostra vita. Alzare la frequenza della nostra vibrazione. Creare la magia. Questa è la Via da seguire. Una via indipendente e autonoma, che non ha bisogno di guru o governanti o situazioni esterne. Una via che ciascuna di noi può perseguire da sé, nella sua propria casa trasformata in tempio, con i suoi gesti quotidiani trasformati in cerimonie.
E con la pratica e la concentrazione vi accorgerete, come è successo a me, che la qualità della vostra vita cambierà. Che davvero sarete via via sempre più avvolte dalla pace, dalla stabilità, dal benessere. Che la Dea scenderà su di voi con il suo dolce abbraccio. E le memorie di quell’Età dell’Oro, l’unica in cui è esistita davvero l’uguaglianza – come dimostrano le sepolture in tombe comuni, senza re né capi, come ricreando di nuovo la cucciolata nel ventre della madre in attesa di rinascere – si risveglieranno nelle vostre cellule, vi restituiranno quella saggezza, quella conoscenza intuitiva, quella bellezza e profondità che vi hanno insegnato a dimenticare.
“Sembra incomprensibile a noi – scrive la Gimbutas in “Le Dee viventi” (Medusa ed. 2005) – che normalmente teniamo ben separate le attività quotidiane dalle esperienze spirituali… ma le abitanti dell’Antica Europa modellavano la ceramica, cuocevano il pane e tessevano dando a queste azioni un valore religioso… intrecciavano intimamente il sacro e il profano della loro vita senza segregazione ideologica. Arte, lavoro e religione erano una cosa sola”.
La Dea era venerata nel suo triplice aspetto di Femmina Gravida, di Madre e di Rigeneratrice dopo la Morte. Le sciamane moderne dovrebbero tornare ad essere consapevoli della presenza della Grande Madre e tornare ad onorarla nei piccoli gesti quotidiani e negli eventi familiari.
La triplice Dea
La Dea Gravida
La Dea Gravida si invocava per benedire la coltivazione del grano e la cottura del pane. Veniva venerata all’aperto e a Lei si facevano offerte. L’offerta, ben lungi dall’essere una sciocca superstizione o un inutile spreco, era invece fondamentale dal punto di vista energetico per richiamare sui campi un’energia positiva e potenziante attraverso la GRATITUDINE. Ai nostri giorni l’agricoltura biodinamica spiega e dimostra come sia fondamentale, per ottenere un raccolto sano e ecosostenibile, concimare bene la terra (quindi il corrispondente delle offerte) e trattarla con rispetto.
Ovvero: prima bisogna dare e poi prendere.
Mentre la nostra società è abituata a saccheggiare la terra con arroganza, convinta che l’essere umano sia la razza dominante sul pianeta e che tutto gli sia dovuto. Provate a raccogliere le verdure dall’orto ringraziando la Madre per i suoi doni. Provate a ringraziarla anche prima di mangiare, come facevano le nostre nonne.
Le offerte consistevano nel versare sulla terra o nell’acqua grano, pane, farina, bevande, acqua. Ma anche profumi, sotto forma di fumigazioni di erbe, venivano offerti all’aria e al fuoco. Ogni elemento era benedetto, onorato e consacrato.
Anche la musica era offerta alla Dea, come pure le danze rituali. Questo non toglie che fossero anche momenti di gioia e di celebrazione, ma sempre con la focalizzazione sulla sacralità delle azioni.
La Dea Partoriente
Poi vi era la Dea Partoriente, simboleggiata nei pittogrammi e sulle ceramiche da una M. Le statuette dedicate alla Dea nel suo aspetto di partoriente rappresentavano una donna con le gambe divaricate e tra le sue gambe si scorgevano la testolina e le braccia di un bimbo.
Il parto era accudito in forma rituale e vi erano donne che attendevano, come sacerdotesse, la loro “sorella”, durante uno dei momenti più sacri dell’espressione della Vita. Le cerimonie della nascita richiedevano una liturgia complessa che veniva svolta nel tempio e che comprendeva oggetti e abiti rituali.
Per diversi anni mi sono interrogata sul significato della lettera M, che durante i miei viaggi ho trovato scolpita o dipinta, a volte sola, a volta sormontata da una A o da una V rovesciata, nei luoghi più disparati del mondo. In quasi tutti i miei libri ne ho parlato poiché da Rennes le Chateau a Cusco da Cholula a Hendaye mi sono imbattuta in questo simbolo.
La prima volta che vidi tale simbolo mi trovavo a Rennes le Chateau sulla tomba alquanto misteriosa di Marie de Nègre (si vedano i miei libri Gra(d)al-il segreto della torre; La via degli immortali; Il ponte tra i mondi; La quinta dimensione).
A Rennes le Chateau la parola Marie è stata volutamente “sbagliata” dallo scultore della lastra davanti alla colonna che alcuni dicono sorregga la statua di Iside, all’ingresso della chiesa di S.M.Maddalena. L’errore ha consentito di scrivere la M con la A sovrapposta. Ho trovato lo stesso simbolo su architravi nel centro storico di Cusco, sopra case coloniali, in cripte e chiese quali l’Abbadia San Salvatore in val d’Orcia – Toscana, a Hendaye nella chiesetta presso la fatidica colonna nei Paesi Baschi francesi e anche a Cholula in Messico.
La piramide Tepanapa di Cholula in Messico, coi suoi 65 metri di altezza e 450 metri di lato è ufficialmente considerata la seconda più grande piramide del mondo dopo la Grande Piramide d’Egitto. Ma al momento attuale si sta scavando sotto le sue fondamenta e gli archeologi hanno già trovato in profondità otto chilometri di labirinti e gallerie sotterranei che si snodano verso l’alto e verso il basso e che si vanno ad aggiungere ai 65 metri dell’altezza, facendo della piramide di Cholula la piramide più alta del mondo.
La grande piramide Tepanapa, come si vede chiaramente dal plastico sistemato nel piccolo museo di fronte alla “collina”, ha nove livelli e fu costruita sopra una piramide più antica e più bassa. La storia ufficiale vuole che quando giunsero gli Spagnoli a prendere possesso di queste terre, la piramide fosse già ricoperta di vegetazione. Si dice che essi non lo sapessero quando vi costruirono sopra il santuario. Ma alcuni cose non quadrano: tanto per cominciare il nome Cholula significa “acqua che cade nel luogo della fuga”.
La piramide Tepanapa sorge su una piramide più antica che, a sua volta, fu costruita su un luogo di culto ancora precedente. Grande è il suo mistero: sulla sommità della “collina” c’è un piccolo santuario coloniale che risale all’epoca della conquista spagnola: il suo nome è Nuestra Señora de los Remedios: in una piccola cella laterale vi sono un altare dedicato a S.M.Maddalena e una colonnina davanti ad esso con impresso il simbolo M con A al centro.
Nel marzo 2008 partecipai a un convegno a Milano sulla figura della Maddalena. Mentre ascoltavo gli altri relatori ebbi un’intuizione: il simbolo M con A sovrapposta poteva rappresentare le iniziali di Meri Amon, ovvero “amata da Amon”, appellativo dato alla principessa Meritaton, figlia di Akhenaton e fondatrice del popolo degli Scoti. L’appellativo Meri Amon col tempo si trasformò in Myriam, il vero nome della Maddalena, e diventò il filo di collegamento tra diverse importanti donne-sacerdotesse del passato, tra cui Myriam Magdala.
Il nome Maddalena, erede della Madonna Nera che rappresenta l’antica Dea – Danae-Isis-Kali-Karidwven a seconda della provenienza – viene da MGDL Migdal o Magdal che significa torre, ma il suo nome era Myriam. Le Madonne Nere ancora oggi sono il simbolo di una Dea Madre potente e omnicomprensiva di cui Maddalena, ovvero Myriam “Magdal” ha raccolto l’eredità nelle fratellanze segrete.
Però riguardo il significato della M avevo solo congetture e nemmeno una certezza, quando finalmente dopo 10 anni di interrogativi, ecco la risposta nella stupefacente opera “Le Dee viventi” di Marija Gimbutas. L’archeologa spiega che il simbolo M rappresenta la rana stilizzata o le cosce di una donna partoriente. In entrambi i casi si tratta di simboli della Dea nel suo aspetto generativo, poiché la rana, in quanto animale anfibio, è simbolo di passaggio dall’acqua alla terra, come il bimbo che nasce. Tale simbolo è antichissimo ed è da lei stato trovato in scavi risalenti appunto al neolitico (8.000 a.C.) europeo e oltre.
Piccole dee a forma di rane venivano scolpite su vasi cerimoniali che a loro volta indicavano la Dea gravida. Scrive ancora l’archeologa: .
Dalla Sheela na gig delle chiese medievali alla odierna convinzione che il simbolo derivi dalle iniziali di “Ave Maria”, il collegamento è naturale – almeno per me – e mi parla del culto della Grande Madre che in tutto il mondo si è diffuso dall’alba dei tempi e non ha mai smesso di risuonare anche sotto altre sembianze
La Dea Rigeneratrice
E infine vi era la Dea-Uccello, la Dea-Avvoltoio, ovvero la Dea nel suo aspetto di rigenerazione. Quando un corpo “moriva” veniva esposto agli animali affinché si nutrissero della carne. Le ossa spolpate venivano poi seppellite ritualmente nel grembo della Dea Madre, come semi che avrebbero generato una nuova vita. Sì, perché la vita non finiva con la morte di un corpo. La vita si trasferiva in un altro corpo. Proprio come una pianta ogni inverno muore e in primavera rinasce con nuovi germogli. Era il corpo che tornava alla terra, non la vita. La vita non può mai morire, può solo cambiare aspetto e forma di manifestazione. Questo terzo fondamentale aspetto della Dea – la RINASCITA in un’altra forma – ci è stata negata dalla nostra cultura rendendoci tutti paurosi e atterriti dalla morte.
La Dea-Uccello era la protettrice della soglia, dell’ingresso nell’altra dimensione, speculare a quella fisica, nutrice e guaritrice attraverso il rientro nel ventre della terra, il silenzio, il riposo.
“La donna matura, nella terza fase della sua vita, possiede saggezza, compassione e valore. La sua fonte della conoscenza è l’intuizione, un sapere soggettivo dell’anima che la fa confidare nella bellezza e nella divinità dentro di sé e in tutto ciò che la circonda. Intorno ai 50 anni inizia un cammino di conoscenza che conduce alla maternità universale. Un viaggio appassionante che apre l’attenzione da se stessa verso gli altri, durante il quale la donna saggia esplora e riconosce i valori e i talenti che può offrire. E’ il momento di dire “sono qui” e condividere i valori fuori dal proprio circolo familiare“. (da “il calendario della donna saggia”, di Elena Caballero).
Onoriamo le donne Sacre, Madri e Dee
(da “Donne di mare” Macrina Marilena Maffei, Pungitopo ed.2013) racconti delle pescatrici delle Eolie
“Allora facevamo il giorno a terra e la notte a mare a pescare e che dovevamo fare? Lavoravamo la terra, andavamo nei precipizi per fare erba. In mare ne passammo pure di tempeste brutte”
“… venivamo a casa e portavamo dieci chili, venti chili, trenta chili di pesce e li vendevamo a Stromboli. Cinque ne ho cresciuti a mare, cinque figli, con la pancia così andavo a pescare”
La loro storia rivela la falsità di un modello patriarcale… donne eoliane che hanno avuto la capacità di svolgere ruoli considerati da sempre solo maschili. La loro esistenza rischia di essere dimenticata. Ma quale storia si va perdendo? Quella di donne che hanno remato di giorno e di notte, che hanno varato le barche, tirato le reti, salpato le nasse e trascinato le barche a secco. Donne che quando hanno pescato di notte, di giorno hanno seminato la terra, raccolto le olive, i capperi, e si sono occupate della salatura dei pesci. Donne che hanno navigato lontano per vendere il loro pescato, che hanno curato la famiglia, lavato i panni, riordinato le case e cucinato. Donne che hanno generato figli e li hanno allevati. E talvolta a qualcuna di loro è successo di partorirli sulle spiagge, a molte di allattarli sulle barche sballottate dalle onde.
Il salario medio corrisposto alle isole Lipari variava da una lira e dieci centesimi a una lira e ventisei centesimi per i contadini… Le donne percepivano da 42 a 50 centesimi e il loro salario non subisce variazioni nelle diverse stagioni….. Detto altrimenti alle isolane toccava in agricoltura lo stesso lavoro degli uomini ma meno remunerato… Si tenta di tener ferma l’idea che la capacità produttiva femminile è per natura inferiore a quella maschile e ha pertanto diritto a una remunerazione inferiore.
“Le donne valevano molto più degli uomini. Lavoravano immensamente di più. Avevano sette otto figli e lavoravano a terra e a mare… Andavano a pescare e venivano coi sacchi pieni di pesci… le donne. Loro andavano sole… tiravano la barca, tutto, tutto facevano”
“Andavano con le nasse… qualche volta le ho viste a pescespada… remavano coi remi di sette otto metri”
“Finché ce la facevamo andavamo a pescare… con la pancia così andavo a pescare”
“Quando erano incinte facevano di tutto, lavoravano in campagna, facevano qualsiasi cosa, non perché erano incinte non facevano niente… dovevano sempre lavorare e poi avevano tantissimi figli… perché poi ogni anno, anno e mezzo: sempre un figlio: castigate a avere figli e lavorare, figli e lavorare”
L’antica abitudine di formare equipaggi interamente femminili… le femmine pescavano pure di notte tra loro: “Mia madre portava pure i pesci con la barca a vendere nelle altre isole” .
Andavano anche sino al “continente”, dove le traversate a mare diventavano più lunghe e impegnative. Remavano in mare aperto per miglia e miglia, tirando a rimorchio una barca vivaio in cui mettevano le aragoste e i pesci più pregiati, per farli arrivare vivi a destinazione. Navigando a vela e a remi raggiungevano i porti di Milazzo, Messina, Napoli, Palermo e Salerno.
“Le femmine pure quand’era Natale portavano i pesci a Messina e a Palermo, una barca a rimorchio piena di pesci. E mi ha raccontato mia nonna che una volta ci hanno messo sette giorni”
“Erano donne ma erano preparate… non erano fesse… andavano con le stelle”
La memoria sul territorio c’è… e l’orgoglio di essere figli o nipoti di quelle donne che hanno rischiato la loro vita sul mare è ancora forte e sentito.
da Apuleio – “Metamorfosi” II sec. d.C. – traduz. Marina Cavalli – Oscar Mondadori ed.
… Era appena scesa la notte, quando mi svegliai di soprassalto, e vidi davanti a me il disco della luna piena uscito dalle onde, splendente di bianco bagliore. Nel silenzio della notte, nel mistero di quella solitudine, improvvisamente sentii la sovrana maestà della Dea, riconobbi che tutte le vicende umane sono governate dalla sua provvidenza, che gli animali domestici e selvatici, e anche gli esseri inanimati vivono in virtù del suo divino potere, in virtù della sua santa luce: tutto ciò che esiste sulla terra, e nel cielo e nel mare, prende forza dal suo crescere, e la perde al suo calare….. Mi scrollai di dosso il torpore del sonno… entrai nel mare per purificarmi, e immersi la testa sott’acqua per sette volte e alla fine, col volto bagnato di lacrime, così pregai la potentissima Dea: “Regina del cielo, che tu sia l’alma Cerere, madre delle messi che insegnasti agli uomini ad abbandonare il primitivo ferino alimento delle ghiande, mostrando loro un più dolce cibo, o sia tu Venere celeste, che al principio del mondo generasti Amore, facesti unire i sessi diversi, rendesti eterno il genere umano donandogli discendenza eterna; o sia tu la sorella di Febo (Minerva), che mitigasti i dolori del parto col sollievo dei tuoi rimedi… tu dal triplice aspetto… tu, qualunque sia il tuo nome, qualunque sia il tuo culto, qualunque sia l’aspetto in cui è lecito adorarti. Tu che illumini tutte le città col tuo femminile chiarore, tu che col tuo umido raggio nutri il seme fecondo, tu che vaghi solitaria e dispensi una luce sempre diversa… dammi tu dopo tanti affanni pace e riposo….
da “Narciso e Boccadoro”, Hermann Hesse, Oscar Mondadori ed. 1997
Una volta avevo dimenticato mia madre, ma tu la rievocasti… eravamo ancora giovinetti… ma già allora la madre mi aveva chiamato e io dovetti seguirla. Ella è dappertutto. Era la zingara Lisa, era la bella Madonna di maestro Nicola, era la vita, l’amore, la voluttà, era anche l’angoscia, la fame, l’istinto. Ora è la morte, ha le sue dita nel mio petto… Debbo prendere congedo da te e come congedo debbo dirti ancora tutto… Volevo raccontarti della madre, che mi tiene le dita strette intorno al cuore. Da molti anni creare una figura della madre è stato il mio sogno più caro e più misterioso, era per me la più santa di tutte le immagini, me la portai sempre in cuore, una figura piena d’amore e di mistero.
Ancora poco tempo fa mi sarebbe stato insopportabile il pensiero di dover morire senza aver realizzato questo mio sogno; tutta la mia vita mi sarebbe apparsa inutile. Ed ora guarda che strano destino: invece d’essere le mie mani a formarla e a plasmarla, è lei a formare e a plasmare me. Ha le sue mani intorno al mio cuore e lo stacca dal mio corpo e mi svuota; mi ha allettato a morire, e con me muore anche il mio sogno, la bella figura, l’immagine della grande Eva-Madre.
La vedo ancora e, se avessi forza nelle mani, potrei darle forma. Ma essa non vuole, non vuole che io renda visibile il suo mistero. Preferisce che io muoia. Muoio volentieri: essa mi rende facile il trapasso…
Ma come vuoi morire un giorno, Narciso, se non hai una madre? Senza madre non si può amare. Senza madre non si può morire.
QUESTA E’ LA VIA CHE CAMMINIAMO PERCHE’ OGNI DONNA TORNI AD ESSERE LA SACERDOTESSA NELLA SUA CASA, IMMAGINE DELLA DEA, ONORATA E RISPETTATA, SACRA DATRICE DI VITA
ascolta la versione audioletta per me da Stea qua
estratto da Manuale della sciamana moderna, di Devana, età dell’acquario 2015
continua